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Racconti di pareti e scalatori

"Quella di Vajolet fu una scaramuccia bizzarra, un primo scontro vivacissimo con le Dolomiti. Ma battaglia vera e grande si ebbe alla Marmolada due giorni di poi: una giornata campale, una pugna lunga, ostinata, durata dall'alba infino alla sera". La prosa antica ma non retorica di Guido Rey è una delle belle scoperte che devo ai "Racconti di pareti e scalatori" a cura di Marco Albino Ferrari. 

Volume corposo, e controverso come pochi. Intanto, sorprendono alcuni svarioni che non possono essere derubricati a refusi tipografici, visto anche il prestigio della casa editrice, Einaudi. Nell'introduzione per ben due volte Marco Albino Ferrari scrive "by fear means" in luogo di "by fair means", dove la seconda espressione, corretta, fa riferimento ad un alpinismo praticato con mezzi leali (senza bombole di ossigeno, senza chilometri di corde fisse, senza utilizzare i chiodi come ausilio per la progressione, eccetera) mentre la prima espressione, errata, non trova riscontro in letteratura.
Ancora: nel racconto di Twight leggere "Mark non fa parte della mia ciurma, di quello sparato gruppo di alpinisti al vertice del gioco" suona stonato anche per chi è uso alla prosa "punk" dell'autore. Recupero dalla libreria "Confessioni di un serial climber" e trovo conferma: si tratta di uno sparuto - e non sparato - gruppo di alpinisti al vertice del gioco. Non possiedo invece la fonte del racconto di Bridwell, ma anche qui un passo suona stonato, quando si legge che le "spedizioni precedenti avevano scavato le loro crune su questo colle da dove si attacca la cresta superiore" poiché mi aspetterei di leggere trune - e non crune. Volume controverso anche per la selezione dei racconti, effettuata secondo un criterio compilativo e non sperimentale, prendendo a prestito la terminologia con cui all'università si bipartiscono le possibili tesi di laurea: la tesi compilativa fa un compendio ragionato della letteratura nota, la tesi sperimentale indaga sul campo, prova, testa, scopre.
Jim Bridwell (il primo a sinistra)
Possibile che dagli ultimi 20 anni di alpinismo giunga solo uno dei ventisei racconti? Non c'era davvero altra voce da fare emergere, altre storie da scovare? Possibile che solo Joe Simpson e Mark Twight siano in grado di scrivere parole cariche di tensione ed introspezione? Di dedicare pagine non di circostanza ad amici scomparsi? Da questo punto di vista, il libro è un'occasione mancata. Rovesciando la medaglia, emergono alcuni meriti: viene offerta una carrellata imponente di pareti e scalatori tradizionali, dove tradizionali aggettiva sia i nomi (Mummery, Bonatti, Cassin, Messner, Rey, Gervasutti, Bornington...) sia lo stile letterario, concentrato nel descrivere ciò che accade fuori - e non dentro - l'alpinista: il chiodo che non entra, la scarica di pietre, la cengia su cui bivaccare, l'invincibile montagna infine vinta. Uno stile letterario intenzionalmente ricercato: "Il criterio che ha guidato la selezione di questi racconti è stato dunque puntare espressamente sull'uniformità tematica e formale del récit d'ascension".
Walter Bonatti (sx) e Riccardo Cassin (dx)
Un genere, quello del récit d'ascension, che ha tra i suoi pregi la sincerità: l'alpinista ne esce sempre nudo, che lo voglia o meno. Su tutti a mio avviso Cesare Maestri, le cui parole, da sole, con forza e nitidezza mostrano cosa NON dovrebbe spingere una persona verso la montagna: superbia, ego, rabbia, disprezzo per i luoghi, lordati con qualsiasi tipo di rifiuto. Adattando e adottando lo svarione di cui sopra: un alpinismo by fear means, per mezzo della paura. Non quella sana, che spinge all'azione, ma quella malata, che ci fa temere il giudizio altrui, che ci rende succubi delle nostre aspettative, che ti spinge a mentire nel 1959 e di conseguenza a tornare con un compressore nel 1970. (Credo che Marco Albino Ferrari abbia la mia stessa opinione in proposito; non può essere un caso che dalla sterminata produzione di Walter Bonatti abbia scelto proprio un racconto sul Cerro Torre, a suggerire il confronto tra i due uomini).
Infine, tra i pregi, la davvero interessante nota biobibliografica, che costituisce di fatto una piccola storia dell'alpinismo, ed offre spunti a tonnellate per continuare a leggere. Tra i molti ritrovo e segnalo l'eccezionale impresa di Felice Benuzzi: rinchiuso in un campo di prigionia in terra d'Africa durante la II guerra mondiale, evase non per scappare ma per andare a scalare il monte Kenya. Dopodiché, ritornò gagliardo dai suoi carcerieri inglesi.

Chris Bornington (sx) e Doug Scott (dx)
Peraltro, la lettura della nota biobibliografica ha scatenato una serie di ricordi, associazioni, immagini, da cui è emersa una assenza pesante:  Maurizio "Manolo" Zanolla. Non da questo libro, ma da qualsiasi libro: il mago non ha mai scritto nulla. Come mio personale omaggio al più forte free-climber italiano di tutti i tempi, ed al suo potenziale di cantastorie, concludo allora questa recensione riportando un estratto della bella intervista che rilasciò alla trasmissione televisa "Le invasioni barbariche" nell'aprile 2011:

"[la montagna] mi ha insegnato anche che il coraggio non deve essere sempre l’ultima cosa che abbiamo e la paura nemmeno la prima. È normale avere paura, però [in montagna] è diverso: nella società abbiamo tante paure, abbiamo paura di sbagliare, paura di essere giudicati, paura anche di giudicare, di informarci, abbiamo paura di essere noi stessi. In montagna non possiamo permetterci questo, perché esiste una paura, che è sempre quella anche di morire, ed è facile forse combatterla, perché si reagisce, si agisce, e l’azione ti porta a trovare soluzioni, a fare piccoli errori ma imparare a continuare ad andare avanti, sei obbligato".

Maurizio "Manolo" Zanolla
               (aprile 2012)
Recensione di:
Ferrari, M. A., a cura di, Racconti di pareti e scalatori. Enaudi, 2011.
(acquistato per 20 euro; tempo di lettura, 10-15 minuti/treno a racconto)