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Confessioni di un serial climber

“Vaffanculo!”.
Il simpatico saluto di Mark Twight dalla quarta di copertina è un manifesto di egotismo che mi aveva a più riprese tenuto lontano dal libro. Poi una sera alla Rock & Walls, mentre sfuggivo all’allenamento sul Pan Gullich curiosando tra i volumi della piccola biblioteca, Pietro tira fuori “Confessioni di un serial climber” e mi fa: “Eccezionale, leggilo”.
Le imprese di Mark Twight: The Reality Bath, il pilone sud del Nuptse, Deprivation, parete Rupal del Nanga Parbat, diretta Ceca sul Denali in sessanta ore. I compagni di scalata: Randy Rackliff, Barry Blanchard, Kevin Doyle, Ward Robinson, Scott Backes, Steve House, Jeff Lowe. Sembra roba tostissima, e non stupisce che il suo manuale Extreme Alpinism sia un testo di riferimento.

Dico subito che il dito medio alzato in quarta di copertina si conferma essere il marchio del libro, ma non è una “goliardata” gratuita: il libro non parla di montagna, ma di sé. Attraverso i 24 racconti che lo compongono l’autore realizza una profonda introspezione, a tratti molto interessante, spesso ben scritta, sempre a ritmo sostenuto, come si fosse su una delle sue vie di ghiaccio. Di rimando, anche il lettore effettua la propria introspezione, e la lettura finisce quindi per coinvolgere davvero.

Mark Twight concepisce lo zaino a perdere: quando finisce il gas, si gettano via bombole e fornello. “Gli intellettuali da poltrona saranno pronti a gridare ai quattro venti la loro ripulsa morale per questo comportamento, ma finché critici del genere non si misureranno con la morte, non capiranno quanto sia facile barattare l’etica con la continuazione della propria esistenza” (p. 220). Credo che tutti in caso di pericolo sarebbero pronti a disfarsi dei rifiuti, ma è ben diverso prevedere di farlo a priori come metodologia alpinistica per scalare più leggeri! Mark Twight scala veloce, forse in stile alpino, ma non pulito. Anche se non lo scrive esplicitamente, si capisce che la sua via ideale è quella con l'avvicinamento più corto possibile, e cioè direttamente in funivia da Chamonix. È allora il nostro turno di alzare, al riguardo, un dito medio...

E però si fa leggere, ed a tratti avvince. In particolare, quando ai tanti che profetizzano “finirai per suicidarti” ribatte “le mie migliori performance […] sono avvenute quanto ho utilizzato l’arrampicata quale strumento per evitare il suicidio invece che come metodo per conseguirlo” (p. 56). C’è chi trova senso nella carriera, chi nella famiglia, chi nella violenza contro gli altri: Twight evita la violenza contro sé stesso trovando senso nell’alpinismo estremo. Al termine del tentativo sul Nanga Parbat Barry Blanchard dichiara: “È stato come far sesso con la morte”. Anche di più, a leggere il racconto. Durante la micidiale ritirata, sfatti, assiderati, uno del team grida: “Occhio che lascio le corde”. Ed il compagno, per tutta risposta: “Pure io”. Laconico Twight: “Nessuno si rese conto della scomparsa delle nostre sole due corde, né diede loro l’addio”. Si salvano perché nel nulla trovano appeso ad un chiodo da ghiaccio uno zainetto con dentro cibo, guanti, e due corde nuove! Anni dopo incontreranno l’alpinista giapponese che lo aveva lasciato lì, a 6700 metri, per un suo compagno dato disperso… Fare sesso con la morte per tenerla lontana. Ma anche per entrare in contatto con il proprio io più profondo, come nel caso dell’incredibile esperienza della diretta Ceca sul Denali (Alaska) in 60 ore. “È difficile convivere con una via del genere. Durante quelle ore abbiamo subito una trasformazione, e ricreare quello stato di ‘consapevolezza assoluta’ potrebbe risultare impossibile. Serbarne il ricordo è una misera consolazione. Ho provato a raccontare e a spiegare la fessura dalla quale abbiamo sbirciato, ma anche gli amici più intimi non possono capire. Quello che abbiamo imparato davvero è racchiuso solo nei nostri cuori” (p. 227).

Gli alpinisti muoiono spesso giovani. Nel libro ricorrono delle volte interi elenchi di amici scomparsi,
delle altre singoli episodi. “Philippe era stato mio compagno di arrampicata, e non era il primo a perdere la vita in montagna. Ho provato a non abituarmi a fatti del genere. Ho analizzato con cura il suo incidente come ho fatto con gli altri. Mi sono impegnato a farlo perché voglio vivere” (p. 61). L’analisi che segue è lucida e spietata – come credo sia spietata la sua voglia di vivere – e ne consiglio la lettura a chiunque, a vario livello, frequenti la montagna, perché c’è da imparare. “Esistono un posso e un non posso; non può esistere un ci provo. Starci dentro al novantotto per cento vuol dire finire al suolo” (p. 63).

Il libro propone anche a più riprese una riflessione sulla dicotomia via-vetta: fare il 90% di una via dovrebbe, da 1 a 100, valere appunto 90, ed invece per le riviste specializzate, per gli sponsor, per gli altri alpinisti, vale quasi zero. Se è tutto quello accaduto e provato durante la via che poi serberemo nel cuore, perché serve la vetta per darvi senso? Serviva che Fabio Grosso mettesse dentro l'ultimo rigore per dare senso alla "via" effettuata prima e durante i Mondiali Italia di calcio?
(febbraio 2007)
Recensione di:
Twight, M., Confessioni di un serial climber (2001). Tr. it. Edizioni Versante Sud, 2004.
(letto in prestito)